Valle selvaggia, terra magra, terra povera: Pietraie ciclopiche, versanti scoscesi e strapiombanti per centinaia di metri. Valle a U lunga solo 14 km, assai accidentata a causa di scoscendimenti storici come quelli del 1594, la Valle Bavona è forse la più selvaggia di tutto l’arco alpino. Magri prati e campicelli circondano dodici nuclei abitati, quasi disabitati, cresciuti in simbiosi con i macigni. Case, cascine e stalle sono dappertutto, anche sulle balze dove pareva impossibile arrivare.

Per poter sfruttare i pascoli alpini, lontani e ripidissimi, in passato si sapeva superare grandi dislivelli seguendo sentieri erti e pericolosi, lungo transumanze epiche, che hanno visto consumarsi tragedie umane di cui restano solo gli echi negli innumerevoli ex-voto. Vita di stenti, al limite della sopportazione umana, fatiche eterne che si sobbarcavano soprattutto le donne quando la Valle Bavona si svuotò della forza virile partita a cercar fortuna, lontano. Lontano dai cataclismi perenni che la colpiscono quando, con la pioggia, arriva anche il rotolio sordo, cupo, lugubre dei macigni che precipitano a valle sino al fiume.

Dopo i disastri la fede prende il sopravvento e nel paesaggio misterioso e apocalittico sono spuntati santuari di ringraziamento. Perché l’uomo ha da sempre cercato di vivere in questo paesaggio ingombrante, sfruttando caverne diventate poi cantine, rifugi, spelonche, splui, trovando sotto i macigni protezione e sicurezza. Ma, spinto dalla fame, ha anche portato la terra sui massi per farne dei prati pensili, per ricavare qualche bracciata di fieno in più.

Eppure questa valle ostile, senza il lusso della luce pur ospitando numerosi bacini idroelettrici, ha saputo affascinare romantici personaggi alla ricerca di una civiltà rurale del passato forse un po’ troppo idealizzata: come quei giovani soprattutto teutonici, ora intenti a salvaguardare torbe e grà, a raccogliere castagne, a preparare fiasce per la processione della prima domenica di maggio. Oppure come quei turisti inglesi che ancora negli anni ’20 soggiornavano all’entrata della valle, a Bignasco, in un albergo, l’Hôtel du Glacier, dalle sembianze fastose e dalle apparenze moresche oggi trasformato in un condominio. Poi, con lo stesso entusiasmo con il quale scoprirono le vallate del Kashmir, risalivano la nostra valle fino ad ammirare stupefatti, a oltre 2000 metri a Robiei, i laghetti alpini cristallini e i maggiori ghiacciai delle Alpi Lepontine, fra cui quello del Basodino ormai in fase di scioglimento totale. Questa è la valle della pietra e della fatica, dove l’acqua la fa sempre da padrone. Una valle da scoprire soprattutto in autunno, quando i turisti sono partiti e restano solo i mille colori accesi degli aceri e dei castagni, nel piacere del silenzio. © Fm / 14 settembre 2017

Come arrivare: in bus Fart da Locarno fino a Bignasco, poi autopostale fino a San Carlo. Funivia da San Carlo fino a Robiei (chiusa in inverno). La valle e i suoi villaggi si scoprono pure molto comodamente a piedi (5h da San Carlo a Cavergno) o in bicicletta.

Informazioni qui

 Una lettura: “Il fondo del sacco” di Plinio Martini (1979). Vi si racconta la dura vita condotta in Val Bavona all’inizio del Novecento, quando l’unica prospettiva di una vita migliore era ancora rappresentata dall’emigrazione oltreoceano.

Foto © Francesco Mismirigo 2018. Vietata la riproduzione senza previa autorizzazione.