La chiamavano primavera, è diventata un infermo. Il tutto aveva iniziato in una città tunisina nel 2010 con un venditore di verdure che decise di ribellarsi alle ingiustizie e si diede fuoco perché una donna in uniforme della polizia aveva confiscato la sua bancarella. Ma chi avrebbe mai immaginato che, cinque anni dopo, avremmo assistito a delle rivolte arabe finite nel nulla e che l’aviazione russa e quella del suo protetto Assad avrebbero distrutto la terza città dell’impero ottomano, la città all’origine di tutte le canzoni, di tutte le cucine e di tutte le civiltà? Data l’entità del massacro, che di fatto è un genocidio che non osa dire il suo nome, si è ormai tentati dal silenzio, dal fuggire notizie umanamente insopportabili, il peggio di ogni guerra mai esistita. E come sopportare l’arrabbiatura per questo Occidente che li lascia fare. Aleppo è l’inizio di quel buco nero in cui si rovescerà l’umanità.

“Si Alep meurt c’est une part de nous qui mourra avec elle. C’est aussi une part de notre humanité qui aura été sacrifiée à jamais.» (Ammar Abd Rabbo, fotografo a Aleppo)

Francesco Mismirigo, 4 dicembre 2016