Il mondo è sempre più stretto. Complice la globalizzazione, le sue parti sono sempre più interdipendenti: l’unica alternativa sembrerebbe essere l’integrazione. Un’integrazione oggi rimessa fortemente in discussione da più parti e in tutto l’Occidente. Un’integrazione che per gli uni dovrebbe essere assimilazione, per altri ghettizzazione, per altri ancora invece un lento processo di concatenazione delle differenze all’interno di un tessuto sociale, quest’ultimo magari frutto di precedenti rimescolamenti culturali, in modo che il tutto diventi compatibile e fecondo.

E’ risaputo: più ci si globalizza più ci si isola. L’incertezza del vivere attuale, decisamente reale ma a volte creata a fini politici, deriva pure dall’impressione che lo straniero – il differente, l’altro – costituisce un potenziale nemico piuttosto che un possibile ospite. Pur essendo una minuscola provincia europea, grazie alla sua posizione geografica il Ticino vive quotidianamente un rapporto di amore-odio con gli altri, siano essi turisti, svizzeri tedeschi residenti, stranieri residenti, frontalieri, rifugiati. Ignoranza, interessi e incoerenza sembrano ormai dilagare e confondersi. Si ha bisogno dell’altro ma nel contempo lo si vorrebbe emarginare.

Da sempre le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo con la separazione dei propri componenti dagli “altri”. Più una società è insicura della sua identità più genera il bisogno del “nüm” la cui formazione si realizza con l’esclusione e attribuendo al “noi” glorie e superiorità presunte o reali, relegando sul “diverso” paure e sospetti e accusandolo dei peggiori effetti che produce la società. Per non soffocare nel proprio isolamento le comunità sanno comunque sviluppare meccanismi integrativi, pur mantenendo l’ambiguità delle scelte. Basta pensare alla parola latina hostis che indica simultaneamente l’ospite e il nemico.

L’altro non è per forza solo lo straniero. E’ “il“ diverso rispetto ad una norma vigente che rassicura – magari anche solo quello dell’altra valle, dell’altro comune, dell’altro partito, l’alternativo, l’ateo, il disabile: l’altro è contemporaneamente un ponte verso l’alterità, la novità e la voglia di nuovi orizzonti, e una minaccia per la compattezza della società. E’ un antidoto ad una chiusura sterile e nel contempo un condensato di paure.

Oggi stiamo assistendo ad un fenomeno epocale che vede il Sud spostarsi massicciamente verso il Nord. In Svizzera abbiamo la fortuna di avere un sistema sociale, politico e amministrativo che ancora sa regolare molti dei flussi migratori che ci riguardano. In Europa non mancano invece i problemi suscitati dall’inserzione impetuosa e (volutamente?) mal gestita in altri contesti di milioni di persone di culture assai diverse spinte ad emigrare da povertà e guerre. Pericolosi sono comunque le generalizzazioni di casi singoli, anche se sempre più frequenti, il confondere gli individui con un gruppo etnico o religioso o il proiettare su di loro stereotipi o formule ideologiche di comodo.

Avere un nemico è da sempre importante per l’identità delle società. Ad esempio, una volta sparita l’Unione Sovietica gli USA non avevano più un nemico e la loro identità cominciava a vacillare. L’arrivo di Bin Laden prima e dell’Isis poi ha fornito loro  l’occasione di combattere un nuovo nemico e di creare un nuovo sentimento di identità nazionale. Poiché avere un nemico ci definisce nella nostra identità e ci permette di avere paure manipolabili, immaginarie o reali. Cercare di capire l’altro significa invece essere disposti a distruggere i clichés, senza per questo negare l’alterità. La conoscenza, la formazione corretta e un sano pragmatismo possono migliorare l’integrazione e sviluppare un corretto senso della solidarietà privo però di quel buonismo ideologico ormai decisamente fuori luogo. L’insicurezza non va combattuta con l’esclusione perché rende gli individui e l’opinione pubblica meno razionali, crea uno stato d’animo di allerta e di psicosi collettiva che fa di ogni erba un fascio, e pericolosi capri espiatori. La sicurezza è dunque indispensabile per limitare la paura. Ma quale sicurezza?

Francesco Mismirigo, 31 luglio 2016

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