Autunno 1950: nella giungla d’asfalto di questa immensa città distesa fra il Pacifico e la Montagna di San Gabriel, una vecchia star del cinema muto si avvia sul viale del tramonto. Mentre poco lontano le fabbriche dei sogni e dell’effimero della mecca del cinema creano altre star di celluloide: Marlon, Charlton, Sidney e Marilyn parteciperanno, ognuno a modo suo, alla creazione di un mito. Los Angeles. Come loro, milioni di persone emuli di Kerouac, sono on the road sulla route 66 a bordo una vecchia  Ford T o di una lussuosa Hudson Commodore con una sola idea in testa: crearsi delle illusioni alla Paramount e alla Universal, dimenticare la fame a Long Beach, vendere il proprio corpo a Malibu e raggiungere l’estasi a Marina del  Rey.

Perché questa è la città dove tutto è o sembra possibile: dove si muore di morte violenta nei ghetti neri di Watts o nei barrios dell’East, dove biondi e muscolosi giovanotti che sprizzano salute da tutti i pori perdono la loro vita a fare surf sulle spiagge di una Monica non più tanto Santa, o a distribuire piacere e sesso nelle ville faraoniche di San Fernando, dove ai bordi di piscine d’oro si osa accendere un sigaro con un mazzo di biglietti da 100 dollari. Primavera 2017: Los Angeles, dominata dagli shows, dal cinema, dalla televisione e dal business, accoglie oltre 15 milioni di persone terrorizzate da ipotetici missili nordcoreani, ma che sembrano ignorare la minaccia del prossimo terremoto. Il temuto Big One che dovrebbe radere al suolo la metropoli non ha però fatto paura al Festival di Locarno in trasferta angelina.

Giovane e multietnica, ma alla fine del secolo scorso intellettualmente e culturalmente inerte rispetto a quanto ha saputo produrre nel corso del primo 900, la città degli angeli venera il materialismo rampante e cura varie forme di autorealizzazione. E’ una metropoli tentacolare, priva di vero centro, un’ameba fatta di interminabili distese di case e di periferie collegate dal maggiore sistema di autostrade al mondo, che sostituì negli anni 40 una delle più grandi reti di linee di tram, tanto cari a Roger e Jessica  Rabitt.

Sul sito dell’attuale downtown, unico quartiere caratterizzato da altissimi grattacieli, nel 1781 fu fondato un pueblo dal governatore Don Felipe de Neve. Ispanica alla nascita, la Nuestra Senora La Reina de Losa Angeles rimase un misero e sparuto villaggio fino alla fine dell’800. Poi arrivarono coloni, emigranti, emarginati e sfruttatori alla ricerca di un mitico eldorado, fatto d’oro, di palme e di aranci che ben presto lasciarono però il posto ad un’infinità di torri di trivellazione per estrarre petrolio. E il paradiso terrestre divenne in poco meno di 50 anni un universo inquinato e invivibile, dominato dalla dea automobile, imperante e onnipresente, assurta a simbolo dell’individualismo di tutta una civiltà che riconosce come Storia il castello della Bella addormentata, come idolo Topolino, come vate Paperon de’ Paperoni e che scelse quale presidente un attore di serie B, scadente in politica quanto lo fu sullo schermo. Oggi LA sta però cambiando, e in fretta. E’ di nuovo una città di tendenza, più rispettosa dell’ambiente, più ecocompatibile, più aperta alla cultura internazionale. Il film “La La Land” la osanna. Forse troppo? Fm / 26.04.2017

Come arrivare: LAX International Airport, voli diretti dai principali scali europei. In treno direttamente da Seattle, San Francisco, Santa Barbara, San Diego, Chicago o New Orleans. In automobile da San Francisco lungo la mitica 101 o da Las Vegas attraverso la Valle della morte.

Dove dormire: Hollywood Historic Hotel, fondato nel 1927 conserva lo charme della follia degli anni 20.

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