Il Ticino è anche un Cantone scomparso: pubblico alcune mie soggettive sensazioni sul territorio di oggi pervase di sentimenti e ricordi di ieri… del Mendrisiotto.

Mendrisiotto: un nome che evoca immagini quasi esotiche, ricordi d’infanzia, di viaggi e di paesi lontani, un tuffo nel passato, visi di Madonne e di Assunte dolorose e di crocifissi in processione, atmosfere di sagre e di feste, lucciole attorno ad una meda e i falò sull’alpe, profumi di uva americana, di foglie secche di castagno, di tabacco, di incenso e di ciclamini nelle Chiese, odori di stalle e di fieno lasciato seccare all’ombra di una nevèra, sapori antichi di vino nostrano, di polenta e brasato, di torte di pane, di marmellate di fichi, di formaggini, di pane non più fresco nel caffè tostato, il fresco delle cantine e dei grotti, il gelo e la neve che accompagnano il tempo della mazza, il caldo torrido nei campi di frumento e di carlùn, passata povertà di gente contadina, sguardi schivi di mo-mò fieri e orgogliosi ma anche schietta cordialità e senso dell’ospitalità, bricolle trasportate oltre la ramina e benvenute aperture sull’Europa e sul mondo. Mendrisiotto: è la porta dell’Elvezia e dell’Italia e il suo territorio preannuncia nel contempo i paesaggi alpini e i dolci declivi collinari della Toscana, dove nel verde intenso dei prati spiccano ancora bianchi narcisi, botton d’oro e erbe medicinali. Siamo nel cuore dell’Europa, al centro dell’Insubria, dove la Lombardia è svizzera, e la Svizzera è ormai lombarda, dove la Brianza sposa le valli lepontine, e dove oggi con non poca fatica si cerca di conciliare i due punti di forza di questa terra: ovvero la tradizione con la modernità e il tutto globale.

Chi conosce oggi la regione si ricorda ancora del suo passato recente: della bachicoltura, delle filande, delle masserie della campagna Adorna e dei campi di tabacco circostanti distrutti dall’autostrada e dallo sviluppo industriale e urbanistico selvaggio. Si ricorda pure della sua gente immortalata da Gino Pedroli, delle sue cantine, oggi a volte trasformate in ritrovi pseudorurali ad usum turisticum o in regni della polenta e della mortadella per nostalgici, della sconsolante povertà e dell’indigenza di una civiltà paesana ora conservata nel Museo della Civiltà contadina a Stabio, della dolce campagna di San Martino diventata una Città della Volpe, del tram che sferragliava dal confine di Chiasso fino ai piedi di una delle più belle chiese rinascimentali svizzere, quella di Santa Croce a Riva San Vitale. E a Mendrisio, il capoluogo, si ricorda del vecchio Canton Uri con i suoi ballatoi, le corti, i granai, i fienili e le stalle, delle case dell’Opprio della sciura Rumilda, la Lücifera, dietro la Gesa Granda, del Morée ormai coperto. Nonostante i violenti mutamenti subiti e voluti, il nucleo antico di questo borgo ha saputo conservare quasi intatto il suo fascino. Forse anche grazie alla sua gente che sembra essere rimasta la stessa dai tempi di Pedroli: gente che ritroviamo nelle pagine di “Terra Matta” di Alberto Nessi, nel “Voltamarsina” di Francesco Alberti, o nelle opere di Piero Bianconi e di Alexandre Cingria. Tutto è cambiato nel Mendrisiotto ma tutto ritorna. Sono cambiati i muri, i volti, i mestieri e le tradizioni ma lo spirito rimane lo stesso. Gente schietta, aperta e timorata che ha saputo tramandare e far vivere tradizioni invidiate da tutta l’Insubria: il culto per il sacro e per il profano, per le proposte culturali, per le funzioni religiose, per le feste e per le sagre dell’uva, per un Gesù flagellato durante le processioni storiche pasquali, per un equino frustato al palio degli asini, per dell’uva pigiata, per delle manze vendute a San Martino nell’ultimo pallido sole novembrino.

Ma i paesaggi bucolici e tinteggiati di nostalgia non devono fare dimenticare che questa terra è estremamente moderna e dinamica: terra di transito situata sul principale asse stradale e ferroviario nord-sud d’Europa, il Mendrisiotto deve da sempre la sua fortuna non solo alle sue capacità imprenditoriali o a quel poco che offriva la terra, ma soprattutto ai viaggiatori, ai traffici di transito di ogni genere e valore, ai frontalieri italiani e agli emigrati dal Sud Europa che dagli anni 50 del secolo scorso hanno contribuito a costruire la sua ricchezza e a farne una terra dove primeggiano il terziario, le nuove tecnologie e l’industria. Non solo traffico e capannoni dunque. © Fm / 22 dicembre 2018