(Vedasi pure gli articoli 1, 2, 3 e 4 sullo stesso tema) Sia la votazione detta “del 9 febbraio” sia la recente accettazione da parte del popolo ticinese dell’iniziativa “Prima i nostri”, ma non solo, stanno rendendo ulteriormente fragili i rapporti fra Italia e Svizzera. Fra ricatti e accuse reciproche sembra ormai che un muro mentale si stia inesorabilmente costruendo a Chiasso.

All’Italia e agli italiani, politici, frontalieri e imprenditori, ogni ostacolo messo sulla via della libera circolazione e sulla possibilità di lavorare e guadagnare in Svizzera infastidisce molto. E una palese ignoranza del nostro sistema politico e del funzionamento della democrazia diretta fa sì che  si parli e straparli sui media, aggiungendo olio sul fuoco. Eppure  sarebbe opportuno che da parte italiana ci fosse più spirito critico e che ci si chinasse maggiormente non solo sui perché di certe scelte svizzere, ma anche sui perché strutturali e amministrativi che possono spiegare come mai un Paese economicamente avanzato non riesce a offrire lavoro per tutti, specialmente a chi abita in regioni fra le più ricche d’Europa, come la Lombardia e il Piemonte; come mai molte ditte cercano di portare la loro produzione o la loro sede all’estero e come mai molti suoi cittadini portano i capitali all’estero e non vogliono più abitare in Italia.

Sarebbe pure opportuno capire come mai la reciprocità degli accordi bilaterali faccia spesso cilecca o come mai molti progetti transfrontalieri, da cui dipende non solo l’immagine di un Paese ma pure la qualità di vita di chi si sposta in auto o in treno, non riescono mai a essere terminati senza ritardi o sperperi. In altre parole, guardarsi più l’ombelico di casa propria e gettare meno fumo negli occhi della gente con gossip e scandali.

Lo stesso dicasi da parte ticinese: occorre osare denunciare gli imprenditori che abusano del sistema o lo sfruttano provocando pericolosi dumping salariali, sensibilizzare maggiormente il mondo economico e dei servizi sui loro doveri morali nei confronti dei residenti, sulle loro responsabilità per quanto riguarda il degrado ambientale e le tensioni sociali, sui rischi di questa corsa contro il muro e sui limiti che volente o nolente devono essere fissati. Occorre invitare pure i politici ad esprimere maggior onestà intellettuale, a rinunciare a situazioni che portano a conflitti di interesse e ad evitare inutili derive populistiche e pericolose campagne elettorali da caccia ai capri espiatori. Perché come non è sana una società che costringe i propri cittadini a lavorare a decine di km da casa propria, creando ad esempio a livello di introiti forti disuguaglianze e tensioni fra chi guadagna in Ticino e chi in Italia, non è altrettanto sana una società dove un’alta percentuale di lavoratori guadagna in loco ma consuma e spende altrove, non ha o ha poco interesse a conoscere il territorio in cui opera e ogni sera varcando la frontiera porta vita altrove mentre le nostre città diventano un deserto.

Alcune ditte italiane sembrano comunque reagire: dinnanzi a muri mentali che spesso non capiscono, e che scioccano rispetto all’ efficienza del sistema elvetico, cominciano a porsi delle domande su come essere meglio accettati. E a prendere coscienza anche delle loro responsabilità dal momento che operano in Ticino assumendo però frontalieri, che a loro volta generano traffico. Perché se non tutto, molto gira attorno al traffico: i residenti lo vivono sulla loro pelle giacché da anni ogni giorno sono ostaggio di migliaia di lamiere targate Italia che ostacolano e bloccano la loro libertà. E, come dimostrato anche da ricerche dell’Ufficio cantonale di statistica, quando lo possono fare i ticinesi votano “di pancia” no all’altro, al diverso, illudendosi che così facendo la marea di veicoli possa cominciare a diminuire, o che i loro figli possano trovare un posto di lavoro pagato in modo corretto.

Ma non sarà erigendo muri che si risolveranno i problemi: si potrà migliorare l’inevitabile vivere e lavorare assieme nella regione insubrica solo con un dialogo aperto, trasparente e onesto fra le due parti e con la volontà di assumersi le proprie responsabilità, portando soluzioni concrete e fattibili senza vendere fumo. Un dialogo accompagnato da una campagna di comunicazione volta a migliorare le reciproche immagini, oggi inquinate da stupidi pregiudizi, e a far conoscere e a far capire le due realtà che in comune sembrano avere ormai solo la lingua. A volte nemmeno quella dato che da Ponte Chiasso in giù frasi come “comandare una rolladen in azione” non significa assolutamente nulla… (5 – Fine)

Francesco Mismirigo, 30 settembre 2016